I Consigli regionali di 10 regioni hanno depositato nei mesi scorsi sei quesiti referendari per
abrogare alcune norme della legge “Sblocca Italia” e del “Decreto sviluppo” in merito alle perforazioni per la ricerca di idrocarburi in mare.
abrogare alcune norme della legge “Sblocca Italia” e del “Decreto sviluppo” in merito alle perforazioni per la ricerca di idrocarburi in mare.
Capofila è la Basilicata seguita da Abruzzo, Marche, Puglia, Molise, Campania, Calabria, Veneto, Liguria e Sardegna. “Chiediamo che non ci siano trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa e che siano ripristinati i poteri delle Regioni e degli enti locali” spiega il presidente della regione Basilicata Pino Lacorazza “mettendo inoltre i cittadini al riparo dalla limitazione del loro diritto di proprietà perché, ad esempio, un articolo dello ‘Sblocca Italia’ prevede che per 12 anni sia concesso il permesso di ricerca sui terreni privati alle società estrattrici”. In questo periodo la Consulta prenderà una decisione in merito alle perforazioni ma la partita si deciderà la prossima primavera, quando con ogni probabilità saremo chiamati a votare i quesiti referendari contestualmente alle elezioni amministrative.
Il referendum interviene in particolare su due articoli del Decreto sviluppo voluto dal governo Monti, il 35 ed il 37 . Il primo prevede l’estensione del divieto di trivellazione in mare alle 12 miglia nautiche ma riattivando contestualmente i vecchi progetti di perforazione bloccati dal governo Berlusconi che si articolano in venticinque permessi di ricerca ed estrazione posti entro le 12 miglia, il secondo riguarda invece la questione di competenza in merito alle concessioni dei permessi tra lo Stato e le Regioni. L’azione referendaria andrebbe quindi a bloccare definitivamente lo sfruttamento di 3 grandi giacimenti a mare (Guendalina di Eni, Rospo e Vega di Edison) che si trovano entro le 12 miglia marine, in quelle che sono considerate acque territoriali italiane, ma non toccherebbe le risorse che si trovano più al largo, ovvero entro le 22 miglia, in quelle che viene considerata “zona di esclusività economica”, come per i giacimenti Argo e Cassiopea al largo della Sicilia.
Dal lato pratico quindi, escludendo i tre casi sopracitati, non dovrebbero esserci grossi cambiamenti, dato che comunque l’attività di estrazione e soprattutto di ricerca è ferma a causa sia del prezzo basso del barile, sceso al di sotto dei 30 dollari, che a causa delle enormi difficoltà burocratiche che si devono affrontare per poter avviare un’attività di ricerca. Ferma è anche l’attività di implementazione dei campi petroliferi già scoperti e sfruttati: si consideri che nel 2011, secondo un rapporto di Assomineraria i metri perforati sono stati 715 contro i circa 7 mila del 1946 o i 269 mila del 1982. Per capire la follia di questo dato occorre prima sfatare un mito: l’Italia non è un paese povero di idrocarburi e questi sono per la maggior parte di qualità medio-alta (intendendo per qualità la gradazione Api). La produzione e le riserve accertate di idrocarburi nell’anno 2010 ammontavano a 5,1 milioni di Tep (Tonnellate equivalenti di petrolio) di greggio prodotto a fronte di riserve pari a 187,4 milioni di Tep che ci pone al terzo posto in Europa dietro a Norvegia e Regno Unito; anche per il gas i numeri sono abbastanza importanti: 6,3 milioni di Tep prodotti e riserve pari a 82,4 milioni di Tep. Questa produzione, nel 2011 ha contribuito rispettivamente al 7,4 e al 10,7% della domanda interna di energia.
Il 75% del gas prodotto in Italia viene prodotto offhsore ed il restante 25% a terra arriva essenzialmente da Basilicata, Puglia e Sicilia, il petrolio invece è prodotto principalmente a terra, dal giacimento della Val d’Agri in Basilicata, il più grande giacimento inshore d’Europa, e da produzioni minori in Lombardia, Piemonte e Sicilia. La produzione cumulata di gas, sempre secondo il rapporti di Assomineraria, nel 2011 è stata di circa 760 miliardi di metri cubi con riserve recuperabili per altri 98 miliardi. L’andamento declinante delle riserve segue quello della curva di produzione ma la causa di questo declino, però, è da attribuirsi all’impossibilità di realizzare investimenti per la ricerca e l’implementazione, piuttosto che per i limiti geologici imposti dalla natura. Perché quello che va chiarito è che l’industria petrolifera ha un rateo di sviluppo che è superiore a quella aerospaziale e pertanto strutture geologiche che 30 anni fa venivano considerate non sfruttabili oggi possono essere facilmente raggiunte e poste in produzione.
Inoltre bisogna considerare che l’industria mineraria, e petrolifera, italiana ha sempre rappresentato l’eccellenza anche nell’ambito della sicurezza con un tasso di incidenti molto al di sotto della media mondiale, già di per sé molto bassa; dal dopoguerra ad oggi infatti si ricordano solo due eventi: l’incidente di Cortemaggiore nel 1950 e quello di Trecate nel 1994. Non si spiega pertanto, se non dal mero punto di vista di un calcolo politico-elettorale, perché ci sia la necessità di indire un referendum per una questione così delicata e di interesse strategico per la Nazione, che, lo ricordiamo, nella copertura della domanda di energia dipende ancora per l’80% dall’estero a fronte di una media europea del 50% circa. Il rischio infatti, a causa della strumentalizzazione politica e soprattutto di una massiccia campagna di disinformazione da parte di comitati civici contrari ad ogni attività “petrolifera” con l’ausilio di sedicenti esperti, è che si raggiunga un esito referendario simile a quello avvenuto recentemente sull’energia nucleare, condannando il nostro Paese, oltre ad altri anni di dipendenza energetica dall’estero che influiscono sulla bilancia commerciale, a una decrescita sempre maggiore.
L’industria petrolifera, infatti, smuove una grandissima mole di investimenti, pubblici e privati, anche esteri in misura significativa, e darebbe quindi una grossa spinta sia alla produzione ed al lavoro, che alla formazione di diverse figure professionali che finalmente potrebbero vedersi giustamente riconosciute aumentando così l’attività di ricerca scientifica in Italia, senza più il bisogno di dover “scappare” all’estero. Dal punto di vista macroeconomico la maggior produzione di idrocarburi porterebbe, oltre ad una diminuzione delle importazioni di tale risorsa per circa 7 punti percentuale (dal 92 al 85%), ad una riduzione del deficit energetico di 4,8 miliardi di euro e ad entrate fiscali per lo Stato pari a 2,5 miliardi l’anno.
Occorre sapere bene quindi il peso della propria scelta che saremo chiamati ad effettuare con il prossimo referendum, scelta che, lo diciamo una volta di più, ha un carattere politico più che pratico, dato che rimodulerebbe il peso dello Stato nelle questioni di sovranità energetica.
Paolo Mauri
FONTE: primatonazionale.it